Oggi vi vorrei parlare di I sommersi e i salvati, libro che è apparso un anno prima della sua morte.
L’ho letto il quarto anno delle superiori in occasione della Giornata della Memoria e più che è un racconto, è una riflessione.
Non farò il resoconto di tutto il libro e neanche della sua vita, che tutti più o meno conosceranno, ma di alcuni aspetti che mi hanno colpita: la vergogna dei sopravvissuti e l’importanza di conoscere il tedesco.
Mi sono sempre chiesta, la prima volta che mi parlarono di Primo Levi, come mai, dopo anni scelse di suicidarsi. Credo che certi dolori non si possano sanare completamente e che non tutto si possa dimenticare così facilmente. Era come se non avesse mai smesso di portarsi il peso di ciò che aveva visto, di essere sopravvissuto.
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Il libro
Quello che più preoccupava Levi è che l’orrore si ripetesse, non identico, perché sarebbe impossibile, ma sotto altre spoglie, nomi o ideologie, ma essenzialmente uguale nel suo nucleo più importante. Sa che se è sopravvissuto lo deve per lo più alla sua condizione di privilegiato, chimico, che gli ha permesso di essere più utile degli altri.
Primo Levi sicuramente non era un ebreo praticante, come molti altri che finirono nei Lager. I tedeschi, infatti, non facevano differenza tra ebrei praticanti o no, per loro non cambiava nulla. Levi era laico e in questo, l’esperienza dei Lager, non lo ha cambiato, anzi non ha fatto altro che rafforzare la sua laicità.
La vergogna dei sopravvissuti
Quello che può stupire e che sottolinea Primo Levi in un intero capitolo, intitolato la vergogna, è che chi fu liberato e riuscì a sopravvivere ai Lager, non fu entusiasta, ne tanto meno felice. Provavano vergogna, vergogna per quello che avevano visto, per quello che erano stati anche costretti a fare. Levi, infatti, ci ricorda che i suicidi dei prigionieri, subito dopo la liberazione, furono frequenti.
Chi è sopravvissuto ai Lager teme molto il giudizio altrui, teme che qualcuno gli chieda “Come mai non ti sei, non vi siete ribellati?”, come se fosse facile farlo o si potesse fare. Teme anche l’accusa di non essere stato abbastanza solidale verso il prossimo. Chi è sopravvissuto sa che se in parte ce l’ha fatta è perché prima di tutto ha pensato a salvarsi, a se stesso, ma chi non l’avrebbe fatto al loro posto? A noi possono sembrare quasi delle colpe assurde, eppure per molti sopravvissuti, queste, diventano colpe, l’essere sopravvissuto diventa una colpa.
I “salvati” dei Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava il contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. “
Questo è quello che scrive lo stesso Primo Levi nel medesimo capitolo. Se in alcuni casi certamente può essere stato così, in altri, sicuramente no. Nessuno, leggendo i suoi libri, ha mai avuto l’impressione che potesse mai appartenere a una di queste categorie. L’aver una Laurea in Chimica l’ha sicuramente avvantaggiato rispetto ad altri, ma questo non può essere una colpa.
L’importanza di conoscere il tedesco
Bisogna sempre pensare e ricordarsi che il primo ostacolo nei Lager era la lingua. I tedeschi parlavano tedesco e, ovviamente, non tutti i prigionieri lo conoscevano. Chi non lo conosceva o non lo imparava aveva molta più probabilità di morire rispetto agli altri.
Primo Levi sapeva qualche parola perché, da studente universitario, per capire meglio i testi di chimica e di fisica, aveva imparato qualcosa, ma la maggior parte degli italiani, escluso qualche triestino, non lo capiva.
La prima barriera e la prima grande difficoltà era proprio la lingua, una cosa a cui non ci pensiamo mai. Primo Levi si rese presto conto che quel poco di tedesco che conosceva non sarebbe bastato per sopravvivere e allora decise di chiedere lezioni ad un alsaziano in cambio della suo pane. Così scoprì che la lingua dei Lager non era propriamente il tedesco imparato sui libri di testo, ma una variante imbruttita.
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Primo Levi: I sommersi e i salvati
Primo Levi con il suo libro, I sommersi e i salvati, ci ricorda di non accontentarci di risposte semplici alla domanda “Perché è successo?”, perché non esiste una risposta semplice a questa domanda e la linea che separa i buoni dai cattivi non è così marcata come crediamo. Tutto è molto più complesso.