28 Aprile 2024
Libri in Circolo

Le Vergini Suicide: l’American Way of Life al capolinea

L’America, ancora oggi, è considerata alla stregua di un mito nella testa di molti: è l’emblema della libertà in ogni sua sfaccettatura, la quintessenza di uno stile di vita avanguardista, oltre che caposaldo del boom economico a partire dagli anni ’50.

C’è stato un momento, a cavallo tra il 1991 e il 1995, in cui un uomo ha scritto pubblicamente di un sogno americano non conforme alla prassi, un sogno costellato da vicende macabre e profane, seguite in sottofondo da un erotismo giovane, inesperto e impazzito.

Jeffrey Eugenides e delle sue Vergini Suicide

La fortuna di questo autore non risale all’anno di concepimento dell’opera, nel 1960, ma arrivò quando nel 1991 accettò di scrivere per il Paris Rewiew, collaborazione che gli valse successivamente l’assegnazione dell’Aga Khan Prize come miglior short fiction dell’anno. Ed è inutile cercare di capire il perché. 

il giardino delle vergini Suicide
Iconica copertina de “Il Giardino delle Vergini” Suicide – Piccola Biblioteca Oscar Mondadori

Ho riletto questo libro per la seconda volta, attirata come al solito da dei temi che, da sempre, mi angosciano e mi emozionano profondamente: La morte e la passione umana, argomenti che in questo libro trasudano da ogni pagina; e la cosa che per certi versi lo rendono agli occhi del lettore pericoloso e sacrilego è il periodo in cui questa vicenda prende forma: nell’America del buoncostume, quella dei primi anni ’70, delle casalinghe dai sorrisi costruiti che dall’uscio di casa salutano i mariti nelle utilitarie di ultima generazione.

Delle ragazzine ribelli ma non troppo; delle funzioni religiose la domenica mattina; delle risatine sommesse e degli sguardi d’amore fugaci ma logoranti; della musica rock troppo spinta e volgare ma che attrae come le mosche al miele. 


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Insomma l’America delle sorelle Lisbon, fragili oggetti del desiderio di quasi tutti i ragazzi di quella Detroit sbocciata economicamente, ricca e in evoluzione ma non abbastanza da comprendere a fondo quale male stesse offuscando la vita dei suoi abitanti. Lo stesso male che inevitabilmente stava prendendosi le vite di Cecilia, Lux, Bonnie, Mary e Therese Lisbon.

Figlie di genitori estremamente bigotti e conservatori, le ragazze vivono una vita rigida e sottomessa a differenza delle adolescenti della loro età. Non hanno amiche o amici, non hanno il permesso di ascoltare la loro musica preferita (si trovano spesso costrette a nascondere agli occhi inquisitori della madre i vinili che riescono ad acquistare in quei pochi momenti di libertà); hanno il divieto di truccarsi e di uscire di casa, eccezion fatta per la scuola e gli appuntamenti settimanali di rito presso la chiesa di quartiere.

Ed è proprio la scuola l’unico luogo in cui possono allentare la presa di una situazione che le strema e le soffoca. Ed è qui che con un solo sguardo fanno ribollire il sangue nelle vene ad ogni giovane uomo a cui passano sbadatamente accanto. La loro è una sensualità ancestrale, è un erotismo ingenuo eppure devastante

“una spallina, un minuscolo lembo di pelle, un ginocchio piegato sotto la gonna” 

L’amaro destino delle Vergini Suicide

Kirsten Stuart è Lux Lisbon nella trasposizione cinematografica di Sofia Coppola del 1999.

Nell’immaginario comune, tra i loro coetanei, acquistano un’aura di solennità e purezza a rimando della Vergine a cui vengono paragonate, perché inaccessibili a chiunque. Incarnano una fluidità, tanto nel corpo quanto nello spirito, capace di annullare ogni razionalità in qualunque uomo.


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La segregazione forzata a cui sono sottoposte le ha trasformate in degli esseri silenziosi e schivi ma assolutamente e disperatamente attraenti; dei trofei maledetti a cui ognuno di quegli inesperti ed ignari pretendenti ambisce. E ci sarà chi, per poco, come Trip Fontaine riuscirà a raggiungere quel frutto proibito che è Lux Lisbon, rimanendone ipnotizzato ed, in seguito, incatenato al ricordo “dalle sembianze di un brivido di eccitazione lungo la schiena” per il resto della vita. Quell’eccitazione vissuta esclusivamente con Lux, l’unica tra le Lisbon ad essere la più spregiudicata e sessualmente attiva, interpretata da una splendida Kirsten Dunst nella trasposizione cinematografica Il Giardino Delle Vergini Suicide, di Sofia Coppola (1999).

L’amaro destino delle sorelle Lisbon, all’apparenza le classiche “ragazze della porta accanto” (bionde, bellissime, educate e cattoliche) getterà un’ombra di angoscia ed incredulità nel cuore di tutti i loro conoscenti, in particolare per la singolarità della morte di ciascuna che, in un modo o nell’altro, le accomunerà ancora per un’ultima volta: moriranno tutte suicide.

C’è una spiegazione a questo gesto tanto estremo quanto poetico?

Una banale riflessione sul piano temporale mi conduce a pensare che sia andato verificandosi un effetto “domino”, reso possibile solo dall’estrema intimità che legava tra di loro le cinque sorelle. Un patto non scritto, una regola infrangibile, la morte di tutte che diventerà vita per tutte. Una congettura, questa, che non soddisferà mai gli interrogativi di tutti quegli spettatori direttamente coinvolti ma impotenti; che non convincerà i paramedici ormai perfettamente consci della posizione dei coltelli in cucina, della cassetta dei medicinali e quali tra le travi del soffitto fossero più idonee per appendere una corda con la quale impiccarsi.

«Vorremmo essere in grado di dirvi a buon diritto cosa succedeva fra le pareti di casa Lisbon, o cosa provavano le ragazze in quella prigione. […] Il tentativo di localizzare con esattezza la sofferenza delle ragazze somiglia all’autoesame che i medici ci consigliano caldamente (ormai abbiamo l’età giusta). A intervalli regolari siamo costretti a esplorare con distacco clinico il nostro sacchettino più intimo, e a premerlo per imprimerci nella mente la sua realtà anatomica: due uova di tartaruga coricate in un nido di sargassi, circondate da tubi serpeggianti, costellate di noduli di cartilagine. Il nostro compito sarebbe quello di scovare, in questo luogo dai confini malcerti, in mezzo a grumi e matasse fisiologici, eventuali invasori sbucati dal nulla. Non ci siamo mai accorti di avere tanti bozzi finché non siamo andati a cercarli. E così, stesi sulla schiena, sondiamo quello spazio, indietreggiamo, ci riproviamo, e i semi della morte si perdono in quel guazzabuglio, perché Dio ci ha fatti così.

Lo stesso per le ragazze. Non abbiamo nemmeno cominciato a palpare il loro dolore che già ci ritroviamo a chiederci se una determinata ferita era mortale o no, oppure (nella nostra diagnosi cieca) se si tratti davvero di una ferita. Potrebbe anche essere una bocca, altrettanto calda e bagnata. La cicatrice potrebbe coprire il cuore o la rotula. Impossibile stabilirlo. Possiamo solo risalire a tentoni le gambe e le braccia, su per il morbido tronco bivalve, e raggiungere un viso immaginato. Ci sta parlando, ma noi non lo sentiamo.» 

Locandina originale del film “Il Giardino delle Vergini Suicide.”

Tutto ciò poteva essere evitato?

Con ogni probabilità resterà sempre un dubbio, piantato come una lama in una ferita: tutto ciò poteva essere evitato? Alla fine di questa lettura, lo credo impossibile. Cecilia, la più piccola delle Lisbon, con la sua prematura morte, ha introdotto un rito di iniziazione a cui le sorelle sono state, seppur consapevolmente, costrette a sottoporsi. Hanno seguito la prima eroina, la più malinconica, di una malinconia contagiosa e viscerale nel silenzio senza senso ma liberatorio della morte.


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Una morte assolutamente non cristiana come avrebbe dovuto essere, una morte indotta, una morte che lancia un segnale di sfida a quella madre che, nella sua cristianità delirante, non aveva mai saputo comprendere il dolore delle sue figlie ma, anzi, lo aveva alimentato fino a renderlo parte di loro stesse, rendendole incapaci di distaccarsene. Esse stesse si erano trasformate nel loro dolore. Si delinea quindi la ragione fondamentale e imprescindibile dell’intera narrazione, ossia che nessuna di loro sarebbe mai potuta scampare alla morte, perché dentro di loro la ricercavano insaziabilmente.

In conclusione, rinnovando il mio amore spassionato per questo romanzo, non mi resta che designarlo col nome che gli spetta di diritto: “CAPOLAVORO“. 

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