Nell’apparente pesantezza del nuovo film di Gianni Amelio, «La Tenerezza», si cela un’angoscia esistenziale e disarmante, un po’ moderna e un po’ secolare. Il ‘sentirsi soli’ anche in mezzo ai propri cari, la xenofobia come paura dell’altro – dello straniero –, la disintegrazione dei sentimenti più puri e autentici, quelli famigliari, l’estremo gesto verso i propri cari: tutti tratti che possono essere letti come conseguenza di un’epoca egoista e individualista, che ha smarrito il senso primordiale di affezione. Ma la genitorialità dell’età adulta – e la responsabilità del passaggio generazionale di cui si fa portatore, la stessa solidarietà affettiva e disinteressata che nutre Lorenzo per la vicina di casa Michela – un’estranea – tanto da obbligarlo all’ospedale nell’attesa che la donna si svegli sono aspetti insiti nella natura umana, per cui è impossibile individuarli in un circoscritto periodo storico.
Ecco allora che quelli che l’opera cinematografica si disvela ben più profonda di ciò che può sembrare superficialmente. Il concetto di xenofobia viene sviscerato non tanto come paura dell’altro – del terrorista in tribunale, del venditore ambulante – quanto come paura della nostra intimità – di amare, di crescere, di fare progetti; l’omicidio diventa lo sfogo di una insicurezza mantenuta costretta per la vita.
Amelio fa quindi un superbo studio sui sentimenti umani e sulle loro più intime connotazioni – servendosi di un cast eccezionale in cui, purtroppo, non riesce a brillare Elio Germano. Il personaggio di Fabio è enigmatico e affascinante, si guarda intorno spaesato in Galleria Principe, ed è probabilmente il più ‘tenero’ del film. E inoltre rappresenta l’alter-ego del protagonista Lorenzo: entrambi vittime della propria solitudine – il primo, vedovo, prima nel proprio appartamento e poi nei corridoi deserti dell’ospedale, il secondo nella sua inadeguatezza paterna; sono amati, ma incapaci di amare, entrambi profondamente infantili e ingenui (Lorenzo con il nipote, con il quale tenta di costruire una relazione, Fabio con i giocattoli-totem di un tempo idilliaco forse mai superato, un tempo nel quale è lecito sbagliare e pentirsi e rinnegare – come nell’episodio raccontato dalla madre, interpretata magnificamente seppur per pochi istanti da Greta Scacchi).
Seppur per qualche breve scena, il film è immobile – e vuoto, come la chiesa dell’ospedale, moderna e fredda. L’unico movimento è il ritorno finale accompagnato dallo slogan «La felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa a cui tornare». Ma gli spettatori, una volta usciti dalla sala, piuttosto che analizzare la propria ‘ricerca della felicità’ si interrogheranno intorno a una battuta di Germano: quanto di «quella che facciamo nella vita è una scusa per farci voler bene»?