
I nati nel 1990, ovvero la generazione anni ’90, siamo noi, quelli scappati in massa all’estero, verso un futuro migliore. Ancora non riesco a credere che sono nella categoria degli adulti, quelli veri. Ormai sono “sbarcata nell’era degli enta”, da qualche anno.
Quando, otto anni fa, ho fatto le valigie per Londra, alla ricerca di un nuovo futuro da scienziata, ero ancora una ragazzina. Passare da ventiquattro a trentadue anni è stato un lampo. Anni vissuti in una sorta di stand-by perché lontano da casa, si sa, si cresce in modo diverso.

I ragazzi degli anni ’90: la migrazione
Il fenomeno che ha portato la nostra generazione anni ’90 a lasciare “il nido” in un senso più estremo risiede in complesse dinamiche economiche. Leggendo una relazione dell’Istat del mio primo anno post laurea (2017), trovo frasi come: “la distanza con la media europea riguardo al tasso di occupazione e di mancata partecipazione non si è ridotta”.

Il ritorno della generazione anni ’90
Siamo ora proiettati in un presente che sa ancora di futuro. Ora noi trentenni nostalgici rivediamo i nostri piani di vita e torniamo a considerare “casa” nell’equazione.
Vi parlo di me, della mia storia di nostalgia, del mio sconcerto nel realizzare quanti anni siano stati “macinati” a fare “esperienza fuori“, quasi come se fosse stato un centro estivo finito con il durare troppo. Un centro estivo trasformato in sequestro, per lunghi e brevi periodi di un’emergenza sanitaria degna di interi capitoli dei libri di storia.

Spero di rappresentare la mia generazione anni ’90, farla rispecchiare in me e magari di far capire qualcosa in più di noi, non solo ai più grandi, ma anche ai più giovani, che solo ora iniziano i loro primi passi nel mondo del lavoro.
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Stesse strade, emozioni diverse: il trentenne confuso
Tornare, dopo molti anni spesi lontano dalla città natale, porta con sé l’inevitabile esperienza di ripercorrere strade calpestate mille volte con una prospettiva tutta nuova. L’orizzonte di un parco o di una via diventano una free ride (giro gratis) nel passato. Cose apparentemente insignificanti come una panchina o un palo rievocano sensazioni vivide da darci un momentaneo capogiro.

Ci sentiamo intrappolati nel passato con le consapevolezze del presente e le paure del futuro. Ed ecco che il povero trentenne si sente confuso, prova dei rimpianti, dei rimorsi, e non sa più bene spiegare il perché abbia deciso di partire. Si sperimenta la momentanea convinzione di sapere come avremmo potuto evitare quegli errori che ci hanno dato la spinta finale a spiegare le ali. Tendiamo a pensare: “Se potessi rifare tutto da capo, ora saprei come, andrebbe tutto diversamente, tutto meglio”.
La wake-up call: il ritorno della generazione anni ’90
Non a caso Zerocalcare è stato proprio impietoso nella sua definizione dei trentenni di oggi. Siamo davvero “una categoria superata, a cui ci si attacca per nostalgia, come il posto fisso”. Sembriamo incapaci di immagazzinare le esperienze in senso organico. Subiamo un po’ la vita senza viverla appieno. Com’è che dice Taylor Swift, la nostra icona anni ’90” si diventa più vecchi ma non più saggi”.

I grandiosi progetti di rientro, le saccenti affermazioni “ora riparto da dove ho lasciato, ora so come fare” si tramutano ben presto in nuove delusioni dal sapore già provato. In un lampo tornano alla mente tutte quelle ragioni lontane che ci hanno spinto a cercare qualcosa altrove. Qualcosa che non abbiamo trovato perché il nostro problema non è poi né la mancanza di opportunità, né la pigrizia.
Il nostro problema è più profondo. Abbiamo trascinato il trauma generazionale dei nostri predecessori in vicolo cieco.
C’è quel misto di umiltà del dopoguerra e sfacciataggine del boom economico tutto mischiato e shakerato in un presente sviato nei valori.