Ho avuto il piacere di poter assistere all’evento organizzato presso il Politecnico di Torino, Giornalismo ed inchieste al tempo dei social. Premetto che il mio racconto è figlio di una semplice riflessione nata dopo aver ascoltato i vari interventi. Specifico che in conclusione di questo mio post ho appositamente scelto la forma di una lettera aperta per poter dare una resa migliore al mio ragionamento, ciò non s’intenda come una mancanza di rispetto, anzi, il “Caro direttore” citato anche nel titolo è un voler rimandare all’opera letteraria dedicata ad Indro Montanelli, direttore storico de Il Giornale.
Giornalismo ed inchieste al tempo dei social
L’immagine in evidenza scelta per presentare l’evento sui canali social, quale Facebook, è molto simpatica, si sposa con l’idea di fondo che deve trasudare da questo incontro. C’è raffigurata una macchina da scrivere, ed al posto del classico foglio bianco si può notare un iPhone stilizzato sul quale vengono incise le battute. Questo per far comprendere quanto l’evoluzione della materia si debba sposare con il mondo dei nuovi media.
Devo ammettere che sono quasi emozionato, è da molto che non siedo tra i banchi di un’aula magna di un’università. Specie in un posto così suggestivo come il Politecnico di Torino, luogo a me sconosciuto visto che ho frequentato un ramo umanistico. L’impatto con l’ateneo è meno pesante del previsto, a vederli così sembrano umani anche questi giovani ingegneri.
Il focus del giorno sarà appunto il giornalismo e l’inchiesta al tempo dei social, un tema che mi incuriosisce molto, che mi tocca dentro, visto che un anno fa ho fondato questo blog e lavoro sui social, anche se mia madre continua a chiedermi come faccio a chiamarlo lavoro se sto tutto il giorno su Facebook.
Dentro di me nutro grandi aspettative quando partecipo a questi eventi, ma al contempo ho anche imparato a disilludermi e presentarmi a queste tipologia d’incontri come un CD-ROM riscrivibile, apparentemente vergine d’ideali e concetti. Come una spugna pronta ad assorbire e successivamente disposta ad elaborare i dati che riuscirà a raccogliere.
Cosa si è detto durante l’evento Giornalismo ed inchieste al tempo dei social?
L’evento è organizzato dalla Alter.Polis, un’associazione studentesca del Politecnico di Torino che si pone l’obbiettivo di fare da tramite tra gli studenti e la politica usando una tonalità indipendente. Il che mi affascina ed al contempo strizza l’occhio all’ospite di giornata, Marco Travaglio. Con lui interverranno Federico Nejoritti ed Alessia Cerantola; rispettivamente editor di Motherboard e giornalista presso Il Fatto Quotidiano.
Leggendo i curriculum degli ospiti si direbbe che sono più realmente indicati per trattare questo argomento, così attuale e delicato.
L’incontro inizia puntuale, tant’è che alle 15 spaccate è già tutto pronto e questo crea scompensi nel mio essere. Dovete sapere che noi del polo umanistico non siamo mai stati abituati così bene. Ho persino trovato posto, pur essendo arrivato ad un quarto d’ora dall’inizio dell’evento, questo mi fa ancora più specie viste le innumerevoli lezioni e conferenze che ho seguito seduto sugli scalini dell’aula magna di Palazzo Nuovo.
Passiamo alle domande, il moderatore tocca subito un argomento abbastanza provocatorio:
Moderatore: ad oggi, si analizzano i dati senza tener conto delle cause? Questo mina l’inchiesta? Che senso ha fare inchiesta?
A.C.: (premette) questo è il momento storico più bello per praticare il giornalismo d’inchiesta. Grazie a questi nuovi strumenti si ha modo di praticare l’inchiesta, i social offrono spunti per raccogliere informazioni chiave. I social aiutano a spiegare difficili argomentazioni a chi “fatica” a comprendere certe informazioni. Rendendoli fruibili a tutti, utilizzando argomentazioni semplici.
I giornalisti d’inchiesta si pongono dall’alto verso il basso ponendosi in modo sbagliato verso il pubblico? (chiede)
Forse è il linguaggio a non funzionare?
M.T.: bisogna fare chiarezza sul valore semantico del termine. Il giornalismo d’inchiesta s’identifica quando il giornalista scopre un’incongruenza e da lì, parte l’inchiesta.
Al tempo dei social non è cambiato, si è solamente complicato. La convinzione dell’opinione pubblica è quella di sapere costantemente tutto. Quindi se uno non sa, ha la necessità di scoprire. Se invece è convinto di sapere, questa fame va perduta.
Vi è uno sforzo ulteriore richiesto al giornalismo d’inchiesta, farsi notare, spiccare tra le altre tipologie di giornalismo e trovare un modo per comunicare al meglio il quadro d’insieme, rendersi identificabile tra gli “scandali”. Non confondersi, trovare il proprio posto nella scala di valori, la posizione dove ubicarsi.
Il compito è dei gruppi editoriali? La scelta che viene fatta, su quale basi viene data importanza ad alcuni “fatti” ed altri no?
Sarà merito del conflitto d’interessi reale?
Bisognerebbe dar conto a chi finanzia le inchieste, non solo a chi le muove.
(Una piccola frecciatina al gruppo “L’Espresso”?)
L’informazione va pagata, altrimenti non è professionale.
I giornali sono uno strumento quotidiano per tenere sotto scacco la politica, un modo per fare business.
F.N.: lavoro per una realtà fatta di contenuti giornalistici. Non siamo interessati alla vendita di copie.
“Dobbiamo riuscire a farci leggere, farci scegliere per la qualità del contenuto”.
Lo chiama “ecosistema” giornalistico, chiede al pubblico, cos’è il giornalismo oggi?
Ottenere informazioni, il lettore deve sapere non solo cosa legge, ma qual è il focus della testata che fornisce l’info.
Il lettore deve alfabetizzarsi, imparare a scegliere il canale. “Io lettore, di cosa ho bisogno?”
F.N. è l’unico a rispondere al quesito posto dal moderatore:
“credo che in questo momento l’utilizzo dei dati debba rendere accattivante questa tipologia di giornalismo”.
Moderatore: nei confronti degli attacchi delle forze politiche nei confronti delle testate per la scelta delle tematiche affrontate dalle notizie. Il giornalismo come si deve comportare?
A.C: il giornalismo non dovrebbe mettersi a battagliare allo stesso livello.
Ci sono testate che hanno fatto il loro tempo, preistoriche nel modo di affrontare le tematiche. Il modo in cui ci si pone al pubblico è obsoleto.
M.T.: …parliamo del ponte Morandi, il giornalismo italiano non hanno mai pronunciato la parola Benetton, (altra frecciatina al gruppo “L’Espresso”?).
Non vi è stato alcun giornalismo d’inchiesta per arrivare ad attribuire il nome degli azionisti.
Il giornalismo d’inchiesta non ha nulla a che vedere, è ordinaria amministrazione, è impossibilità d’informazione. Mancano i fondamentali, in Italia.
Perché l’informazione non dice chi è stato? Per la pubblicità.
La pubblicità compragli spazi che dovrebbero essere destina alla “cronica basic”, di conseguenza alcuni giornali scelgono di togliere spazio all’informazione per avere maggiori introiti.
Travaglio ha inoltre spiegato che certe cose a Il Fatto Quotidiano non capitano, e che il suo giornale non è in vendita. Portando per esempio il caso Enel. L’azienda di fornitrice di luce e gas, in seguito ad un’analisi fatta dal giornale non volle più avere nulla a cui spartire con gli spazi pubblicitari del medesimo. Enel al tempo sostenne che il modo di analizzare in maniera negativa la stessa offerta che veniva pubblicizzata sul quotidiano non fu una grande mossa di marketing. Ciò portò Il Fatto Quotidiano a pubblicare in prima pagina l’affronto fatto da Enel, cominciando così una battaglia nei confronti di coloro che adoperano il sistema pubblicitario atto sui giornali con l’intento di comprare anche la benevolenza degli editori e giornalisti che vi scrivono.
F.N.: La notizia è ormai vista come prodotto, il canale la veicola ad essere un contenuto da social, non un’inchiesta.
Solo il NYT ha preso in essere la necessità di raccontare in maniera eticamente corretta, dando una vera visione giornalistica al caso del ponte Morandi.
Il conflitto in Italia è di valori, non d’interesse. Se una notizia non paga non è meritevole d’essere esplicitata nel nostro paese.
Per ciò che mi riguarda, resto amareggiato uscendo da questo evento. Sedendomi in quell’aula ero convinto si sarebbe parlato del rapporto esistenze tra i social ed il giornalismo, e mi si permetta di dire che non è stato così. Gli interventi di Federico Nejrotti sono stati gli unici a poter soddisfare in qualche modo la curiosità di chi ha partecipato all’incontro perché affascinato dal giornalismo e dal modo in cui esso si relaziona con i social.
In qualche modo, ho trovato “scoraggianti” le argomentazioni portate dal direttore, Marco Travaglio e dalla giornalista Alessia Cerantola. L’impressione è quella di un giornale, Il Fatto Quotidiano, che si batte per i propri ideali, ma che in questa guerra si pone in maniera troppo crudele nei confronti dei propri competitor.
Ed è per questo che Le scrivo:
Caro direttore,
Credo sia giusto porre un tarlo a coloro che ci ascoltano, meno consono però nutrire una sorta di sfiducia ulteriore nei confronti delle testate giornalistiche. Si rischia di minare ancora di più la già poca fiducia che i giovani d’oggi hanno per questi canali d’informazione. Seminare un dubbio così forte, che già è tanto consolidato tra noi altri che ci affacciamo sempre meno ai quotidiani. La Sua onestà è disarmante, l’apprezzo fortemente. Ma come detto dalla Sua collega Cerantola, andrebbe misurata per il pubblico che si ha davanti. Un giovane universitario uscendo da quella sala conferenze si sarà sicuramente portato a casa un sorriso, grazie al Suo modo affascinante e diretto di analizzare le questioni che ci circondano. Io però, oltre al sorriso mi sono ritrovato addosso questo dubbio enorme.
Di Lei mi posso fidare?
Marco Travaglio è un direttore di giornale e mi sta dicendo che ogni buon direttore difende gli interessi del proprio giornale. Capisce cosa intendo? Chi mi dice che Lei ha attaccato Enel (per usare l’esempio fatto durante la conferenza) perché magari aveva già accordi con altre società ad Enel concorrenti. Non me lo dice nessuno, uso il buon senso e penso che è stato Suo dover azzittire degli esterni che volevano venire a comandare a casa Sua.
Il mio appunto, caro direttore, vuole essere volto alla paura mediatica che ci circonda. All’impossibilità che noi altri, quelli che spesso stanno dall’altra parte del giornale, della notizia, dello schermo abbiamo. Siamo materialmente costretti dai media a subire notizie che non scegliamo.
Poi, ci sono giovani pazzi che provano ad avvicinarsi a questo modo, che provano ad imitarVi. Cosa deve pensare un blogger o chessò, uno stagista de La Stampa? Che non vale la pena provarci neppure?
Che questo mondo è così marcio da dentro, tanto da farmi pensare che anche Lei ha dovuto subire per anni, magari scrivendo cose che non gradiva, finché non ha avuto la forza di scappare e creare qualcosa dove poteva essere libero?
Quello che dico è, ho solo paura che si perda la speranza e che questo porti ad una totale ignoranza nei confronti di un mezzo così bello, come la carta stampata.
In fede,
Gabriele
ps caro direttore, spero che questa mia riflessione Le dia perlomeno modo di sorridere, tanto quanto il mio modo goffo di porLe una domanda registratore alla mano, mentre gli altri ragazzi si avvicinavo a Lei solo per chiederLe un selfie.
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