
Percorreremo “la via del vino” in compagnia di Francesco Taviani che ci racconterà la sua passione enologica. Come Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry Francesco ha intrapreso un viaggio allegorico alla scoperta del tempo.
Francesco vola alto con i grappoli d’uva che sono l’emblema della passione e dell’amore. Il racconto della via del vino ci permetterà di comprendere il valore del tempo, delle emozioni, dell’attesa, della trepidazione, della felicità e della sorpresa.
È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante.
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe

“Raccontaci di te e di come ti sei incamminato verso la via del vino”
«Sono nato a Grosseto nel 1994, dove risiedo. Dopo la laurea in Filosofia ho cominciato a sviluppare la mia “curiosità” per l’enologia e ho conseguito il Master Vini italiani e mercati mondiali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Da circa tre anni mi sto affezionando sempre più a questo ambito. Punto sul patrimonio ampelografico e sulla biodiversità italiana. Amo i vitigni vecchi. Sono appassionato anche di archeologia, intesa come ricerca dell’archè (principio). Da qui la mia predilezione per l’antichità.
Mi affascina la riscoperta, la tutela, la valorizzazione e la vinificazione, in piccola scala, dei vitigni autoctoni, in particolare di una sottocategoria chiamata vitigni reliquia.
Bisogna premettere che nessun vitigno è davvero autoctono. I vitigni sono l’espressione di incroci spontanei e non, di migrazioni e di spostamenti anche casuali, per esempio per opera degli uccelli. Pare che la patria della vitis vinifera sia il Caucaso».
“Parlaci della tua passione per le vigne vecchie”
«Le vigne vecchie sono dei tesori. Le varietà sconosciute sono dei biotipi ampelografici che magari non sono più sul mercato e questo costituisce anche un serbatoio genetico, perché non si sa mai cosa può succedere. Conviene sempre avere più varietà di biotipi. I vitigni autoctoni sono il passato e il futuro. La sfida consiste nel saperli raccontare.
Amo le vigne vecchie abbandonate o a rischio estirpazione. Talvolta mi prendo cura anche di poche piante o di pochi filari, non agisco con una prospettiva industriale, ma amatoriale-artigianale. Mi bastano pochi quantitativi di uva. Non serve inondare il mercato, Nella nostra prospettiva amatoriale è meglio produrre quantitativi di uva contenuti.
Tra l’altro, all’estero c’è anche un audience interessata all’argomento dei mono-varietali, degli autoctoni, delle vigne vecchie delle piccole produzioni. Questo segmento del mercato è da valorizzare. Bisogna incoraggiare la coscienza imprenditoriale collettiva della zona, offrire delle soluzioni alternative facendo da pionieri nel nostro essere dilettanti».
“Come nasce il tuo progetto della via del vino?”
«Prima di inoltrarci nella nostra via del vino volevo dire due parole sul termine vins de garage (vini da garage) che è quello che faccio io. Vins de garage è una corrente originatasi in Francia negli anni ’90.
Secondo una prima ipotesi Jean-Luc Thunevin (13 aprile 1951) che aveva piccole produzioni di Grenache e Syrah, iniziò a ribellarsi all’enologia istituzionale dell’epoca, dicendo di fare vini a “denominazione incontrollata”».
“I vins de garage si contrappongono alle vinificazioni classiche?”
Vins de garage nasce come un movimento di protesta “rivoluzionario” in opposizione ai canoni dell’enologia dell’epoca, andando anche contro al tema dei disciplinari (a certe alcune tecniche di vinificazioni classiche, ai regolamenti e alle restrizioni).
Vins de garage prese vita per via di questo “cattivo ragazzo” e anche sotto la spinta della stampa dell’epoca.
In questo periodo nacque una contrapposizioni tra enologia industriale e artigianale, tra enologia classica e il tema dei vini naturali.
Per rispondere a un bisogno di sicurezza si cercano produzioni naturali o biodinamiche dove c’è un minimo impatto sul prodotto o sull’ambiente. Qui entra anche l’altro tema della sostenibilità. In questo spazio di protesta è ricomparso il tema dei vins de garage che oggi sono declinati da un altro punto di vista».
“Quali sono le tappe da percorrere nella via del vino?”
La vigna ha bisogno di molte cure, per tutto l’anno, inoltre occorre scegliere i vitigni e dosarli in modo da ottenere il giusto aroma. È una vera e propria arte.
Inès Cagnati, I pippistrelli
«Si va in vigna con l’automobile scassata, non si usa il trattore. Non facciamo trattamenti, si lavora con cesoie e zappa, talvolta ci facciamo prestare gli strumenti da lavoro dagli amici, con i quali condividiamo il tempo e le merende. C’è poi una fase in cantina, perché vins de garage può indicare anche le produzioni domestiche negli scantinati che sono trasformati in cantine».
“Qual è la caratteristica dei vins de garage?”
«I vins de garage, chiamati anche vins de jarden o vins boutique sono produzioni di nicchia.
Ci sono diverse accezioni che contribuiscono a definire la parola qualità. In questo senso, traduciamo qualità con originalità e unicità. Con i vins de garage non facciamo i soliti vini che hanno lo stesso gusto, basati su protocolli e prodotti enologici identici e omologati.
Noi facciamo vini che variano di anno in anno, forse perfino di bottiglia in bottiglia. Lasciamo esprimere il prodotto accompagnandolo.
Non esiste il vino naturale, ma c’è un modo meno invasivo e dirompente di concepire l’artificiale. Quello è il nostro modo. Il vino di una vigna sul mare non deve avere la stessa impronta di quello fatto sopra una miniera di ferro nell’entroterra.
Noi ci atteniamo a questo. Inoltre, non è detto che ogni anno esca sempre la stessa etichetta. In tal senso, sì, siamo naturali. Perché magari quell’anno la natura ha privilegiato altre uve o altri contesti. Non dobbiamo fare braccio di ferro con l’annata, non abbiamo una industria da mantenere.
Inoltre, i nostri vini non vanno degustati con il “naso tecnico” e la scheda di degustazione, ma con l’immaginazione che permette di immedesimarsi con il progetto, con il sentimento che unisce chi assaggia a chi produce e con la curiosità di chi vuole provare qualcosa di originale.
Detestiamo odori sgradevoli e difetti, perciò non produciamo bottiglie affette da degenerazioni. Siamo anche convinti che talvolta alcuni elementi gusto-olfattivi contribuiscano a diversificare, a creare un’esperienza di gusto sincera e originale, a demistificare l’omologazione di nasi e palati».
“Come viene fatta la raccolta dell’uva?”
«I grappoli d’uva sono recisi a mano, uno per uno, e poi adagiati nelle cassette che portiamo nelle macchine di chi prende parte alla vendemmia. Durante il tragitto è facile imbattersi fra i rovi e le vespe. Le cassette vengono scaricate in cantina, ubicata sotto il livello del mare, vicina alla spiaggia di Castiglione della Pescaia.
Da quest’anno c’è anche un garage suggestivo nella zona delle Colline metallifere, dove ho posizionato le barriques per l’elevage del vino».
“Quali sono i passaggi chiave nel processo produttivo del vino?”
«Le uve portate in cantina, sotto il livello del mare e con un’ottima umidità mitigata dalla ventilazione, sono state sottoposte a una selezione ulteriore. La pigiatura è stata affascinante. Una signora svizzera che abita nelle vicinanze del garage, attratta dal profumo proveniente dalle cassette si è offerta di pestare i grappoli, ballando sulle note di Adriano Celentano.
Abbiamo messo anche i grappoli interi dentro al tino di acciaio e lei ha iniziato a pigiarli danzando come una menade, mentre noi aggiungevamo altri grappoli. Dopodiché abbiamo lasciato il mosto a fermentare per mezzo dei suoi lieviti, quelli indigeni che provengono dalle bucce dell’uva.
Nei mesi successivi ci siamo limitati a dei travasi per illimpidire la massa e abbiamo strizzato le bucce grazie a mia sorella che è entrata nel torchio.
Presenza minima di solfiti, stabilizzazione fisica dovuta al fresco dell’inverno e decantazione in grandi bombonnes di vetro. Poi, l’imbottigliamento manuale, una a una, fino ad arrivare a 150.
Dopo questa sosta nelle grandi damigiane di vetro, che hanno proprio un valore sia tradizionale sia simbolico, l’imbottigliamento è stato fatto a mano e bottiglia dopo bottiglia siamo arrivati a contarne 150.
Il risultato della lavorazione del Ciliegiolo Sangiovese si chiama Val Beretta, la valle dove si trovava un vigneto vecchio, che è stato salvato l’anno prima.
Dal 2022 ho curato quella vigna, nella cui area tra gli anni ’60 e gli anni ’80 sono stati rinvenuti dei tesori etruschi esposti al MuVet, il museo archeologico di Vetulonia».
“Descrivici il vino rosso che hai prodotto”
«Val Beretta è un vino che dopo un anno si mostra di colore “scarico” come piace a me, lucente. Fondo morbido con impressioni fruttate che si aprono con intensità sia al naso sia al sorso.
Il riferimento gustativo è quello della mora di rovo, della ciliegia a cui si aggiunge la nota di lavanda, il profumo balsamico del ginepro, la bacca del mirto e il pepe verde. Il Ciliegiolo in particolare, ricorda le spezie verdi.
Un vino morbido, rotondo e piacevole la cui temperatura perfetta per servirlo è 14°. Si apprezza anche d’estate. È adatto al pesce, alle ricette rosse di pesce, a un aperitivo e si sposa anche con i funghi».

“Se dico Ansonica, vedo i tuoi occhi brillare come stelle”
«L’Ansonica è un vitigno antico affascinante, che come tutte le uve originarie proviene dal Caucaso, ma è arrivata nel Sud Italia, in Magna Grecia, grazie alle colonie elleniche.
Avevo avanzato un’ipotesi su una correlazione con un’uva georgiana simile, Tsaolikaouri, ma al momento i ricercatori, basandosi sulla mappatura genetica, non hanno confermato questa teoria.
Rhoditis e Sideritis sono due uve greche con cui condivide affinità di DNA. Dapprima è arrivata in Enotria, l’antica Calabria, e in Sicilia, dove tutt’oggi è affermata con il nome di Inzolia.
Poi, sia attraverso gli scambi commerciali marittimi con il popolo etrusco, sia forse attraverso un lento progresso via costa, è giunta fino all’Etruria, fino al sud della Francia, dove oggi c’è una varietà ampelografica molto simile, il Clairette, e perfino sulla costa catalana.
Ci sono numerose ipotesi sul suo nome, rintracciabili nel ricco patrimonio di leggende e aneddoti che la inseguono. La più probabile, tuttavia, è legata alla sua predilezione per le aree costiere, cioè le anse.
Quest’uva è spesso bistrattata perché non eccelle nei valori di acidità che raggiunge. La sua caratteristica principale è la sapidità che ne bilancia la morbidezza. A seconda dell’areale di provenienza può sviluppare diversi bouquet aromatici, anche se non rientra tra le uve aromatiche.
A oggi, non c’è una modalità univoca di vinificazione, anche se si predilige macerare la buccia per apportare complessità.
In Toscana, sia sulla costa, da Capalbio a Suvereto, sia nell’arcipelago, trova un areale vocato e particolarmente adatto. Ama la vicinanza con il mare e non soffre in modo particolare la siccità. È stata una delle uve bianche più coltivate, soprattutto nelle terre maremmane.
La mia Ansonica, Angelica, si chiama così perché rappresenta un omaggio a mia sorella, che mi ha aiutato nella vinificazione pestando le uve e in particolare al genere femminile. Molti aneddoti sulle sue origini la legano a principesse e fanciulle, oltre a essere considerata una regina fra le uve.

Nel 2023 ho prodotto 120 bottiglie, raccogliendo le uve da un caro amico, in un vigneto che lambisce la costa grossetana. Le uve sono state vinificate a pochi metri dal mare, che con la sua brezza irrorava la stanza di vinificazione come un polmone. Il mare non le è mai mancato. I processi sono stati perlopiù artigianali, senza alcun ricorso a tecnologie sofisticate.
Le uve pressate in modo gentile, da mia sorella, hanno macerato in grandi damigiane di vetro, e per la fermentazione alcolica non ho fatto ricorso a lieviti selezionati.
Non ho fatto ricorso a filtrazioni, per garantire più corpo e complessità al vino, e mi sono limitato ai travasi per pulire la massa, e al freddo invernale per stabilizzare.
Ho utilizzato le fecce nobili, rimescolate quotidianamente, per apportare succulenza. Infine, ho imbottigliato a mano ogni bottiglia».

“Quali sono le caratteristiche di questo vino?”
«Il vino si presenta biondo alla vista, con sfumature rosa legate al contatto con le bucce. Al naso, propone profumi di vegetazione aromatica, accompagnati da cenni floreali. Al palato, offre note delicate di susina, di miele e di biscotti, a testimonianza del riposo sulle fecce fini. Il sorso salino e piacevole non spicca tanto per la persistenza quanto piuttosto per la sua grazia, che attrae invitando a nuovi progressivi assaggi.
Le bottiglie della prima annata hanno riscosso un successo inatteso perché sono durate poco. Inoltre hanno suscitando “l’attenzione” di importatori e commercianti che si sono fatti avanti, ma che non abbiamo potuto accontentare.
Ho tenuto solo qualche bottiglia per valutare l’evoluzione nel tempo, oltre che per ragioni affettive visto che è il mio primo vino bianco, ottenuto dalla mia uva preferita. In ogni caso, sto già preparando la nuova annata. Quest’anno ho scelto un’altra località, per valutare la mia tecnica su uve diverse».
“Dimmi la verità, lungo la via del vino si intravedono novità?”
«Nel 2024 c’è stata una piacevole novità che non so ancora se uscirà nel 2025 o in seguito. Si tratta del Gorgottesco, chiamato in questo modo perché a rischio scomparsa vista la sua rarità.
Il Gorgottesco, era una delle varietà più diffuse nella Maremma senese e nella parte grossetana delle Colline metallifere, almeno fino alla metà del 1800.
In una vigna molto vecchia in prossimità di Ribolla (GR) come progetto Enoici Furori, abbiamo recuperato alcune piante di questa varietà. Emozionati per la riscoperta, abbiamo contattato il Centro di ricerca viticoltura ed enologia per richiedere informazioni e notificare l’avvenimento visto che è una varietà estinta. Abbiamo deciso di vinificarlo poiché al momento non esistono bottiglie di vino ricavate da queste uva indigena.
Questa varietà è conosciuta anche con altri nomi folkloristici, come “Ingannacane” o “Palle di gatto”. Ha la particolarità di essere vendemmiata a fine ottobre. Questo, secondo i ricercatori, la rende adatta al futuro a seguito dell’innalzamento globale delle temperature».
La via del vino riserva una nuova sfida: ci sarà spazio per il nuovo vitigno reliquia cioè il Gorgottesco».
“Come vedi il mondo enologico del futuro mentre percorri la via del vino?”
«Penso al nuovo mondo enologico di salvaguardia e tutela di un bene ampelografico, che eviti la gentrificazione, che la è perdita di identità dei territori, anche nei loro prodotti, nelle eccellenze che esprimono.
Desiderio dare il mio contributo anche perché ci vedo il futuro, soprattutto in Toscana, nel senso che secondo me vale la pena di distinguersi per accaparrarsi delle fette di mercato e per raggiungere i nostri competitori internazionali.
Amo tutte le varietà autoctone, ma la mia predilezione per il bianco è rivolta all’Ansonica».
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Nella vita contano i legami che riusciamo a creare con le persone come Francesco che “coltivano la gentilezza”.
Grazie Francesco per la tua generosità e per la tua passione.
Grazie anche a Federico Ferroni e ad Angelica Taviani per aver messo a disposizione i loro preziosi scatti e grazie a Rebecca d’Aniello per il disegno che raffigura Francesco alle prese il suo trasporto per l’uva.
Il viaggio alla scoperta della via del vino è fatto di fatica, attesa e pazienza, ma è anche un percorso esoterico: al pari de Il Piccolo principe con la sua amata rosa, trai la sua stessa gioia con la cura della vigna.
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.
Il Piccolo Principe