Sabato 3 giugno, normale serata lavorativa al ristorante, cercando di sopravvivere in vista dell’affitto.
Serata moscia, pochi prenotati e ben lontano dai sabato soliti in cui si sfiorano i 200 coperti. Colleghi che arrivano con maglie della Juve, guardando la partita dal tablet e cristonando perché non sono potuti andare in Piazza San Carlo, come ogni juventino degno di nota.
Perché stasera c’era la finale di Champions, quella contro il Real Madrid.
Ci accingiamo a pulire per chiudere quando, alle undici e un quarto entra una coppia di fidanzati, sulla trentina; lui senza scarpe entrambi con le maglie zuppe di sangue, chiedono di poter usare il bagno, in evidente stato confusionale.
Terrorizzati!
Noi non capiamo, escono dal bagno si siedono a un tavolo. Mi avvicino, visto il loro stato emotivo chiedo se hanno bisogno di qualcosa, insomma un bicchiere d’ acqua, una bevanda calda, qualsiasi cosa possa farli tranquillizzare.
Iniziano a descrivere la scena in cui si sono trovati catapultati questo sabato 3 giugno 2017.
Piazza San Carlo, boato, urla di terrore al grido di “un attentato!!”; da quel momento, le cose precipitano. Un’ onda di persone in preda al panico inizia a schiacciarli, lui perde la scarpa rischiando di cadere ma lei, con mano ferma lo tiene su, evitandogli il peggio. Qualcuno però, non ha avuto la stessa fortuna, finendo per terra schiacciato.
Follia generale, risse che scoppiano e, trovato il motivo del sangue sulle loro magliette. Preoccupata, vado in magazzino per telefonare a mio padre, juventino sfegatato che sarebbe dovuto andare in piazza si, ma a Moncalieri per vedere la partita. È rimasto a casa, tiro un respiro di sollievo.
Torno a casa, mi butto sotto la doccia. Questa volta dura più del solito; ho bisogno di fermarmi un attimo. Perché la prima cosa che mi è venuta in mente quando i ragazzi raccontavano, è stata “hanno vinto loro, sono arrivati esattamente dove volevano arrivare?”.
È terrificante pensare che, al primo boato, il panico ti spinga a pensare “ecco, adesso ci siamo, adesso sono arrivati anche qui, a casa mia“. E non posso fare a meno di pensare che, se succedesse a me, un mega attacco di panico non me lo leverebbe nessuno.
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Comunque si, hanno vinto loro, anche se non abbiamo avuto (fortunatamente), nessun attentato. Nel momento in cui, non sei più libero di scendere in piazza a festeggiare che scatta la paura, hanno vinto loro.
Nel momento in cui, guardi con sospetto il tuo vicino sul pullman perché ha la barba lunga e la tunica, hanno vinto loro, nel momento in cui commenti la donna con il velo, hanno vinto loro.
E abbiamo perso tutti.
Abbiamo perso noi, che ci guardiamo intorno con paura, abbiamo perso noi, che con aria guardinga ci squadriamo, parliamo sottovoce per non farci sentire e giudichiamo.
Io però, non voglio che loro vincano; continuerò a guardare nello stesso modo il mio vicino e a incazzarmi perché trovo ridicolo debba urlare a gran voce “Not in my name”. Perché devi giustificarti? TU, non hai fatto niente.
Sono sotto la doccia e penso; penso a Marx, e penso alla sua teoria sulla religione, su come la religione sia solo “oppio per i poveri”.
Penso.
Penso a tutte queste stronzate, e capisco che Marx, tutti i torti non li aveva.
Sono stufa di sentire persone parlare di cose in cui sono completamente ignoranti, sono stufa di populisti da quattro soldi che cavalcano l’onda, in situazioni tragiche, per accaparrarsi due voti.
E questa volta, lo voglio urlare io, ogni volta che sento discorsi beceri “NOT IN MY NAME”.
Questo è ciò che mi rimane addosso dopo il mio tranquillo sabato 3 giugno di panico.
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