«Spectral» è uno sparatutto, prima di essere un film. Godibilissimo e fluente nel suo genere (una produzione Netflix non può certo farsi mancare l’assicurazione di profitto) rappresenta il nuovo filone sci-fi, che si allontana definitivamente dai vari «Alien» & co. Il primo film di Nic Mathieu racconta le vicende di un plotone di guerra inviato in Moldavia per risolvere una guerra con delle strane entità – esseri viventi o paranormali – in un’opera in cui la concatenazione degli eventi e i ‘colpi di scena’ – se così si possono chiamare – sono già stati ampiamente sviscerati da una longeva tradizione sci-fi di film di guerra. L’intreccio che ricalca quelle delle campagne dei videogiochi si inserisce in una scena post-bellica e post-industriale (per gli amici trita e ritrita) che fa da sfondo a vicende sono funzionali e strettamente connesse fra loro: l’ingegnere che costruisce una tecnologia da usare nel ‘livello successivo’ o le rivelazioni tecniche necessarie al progredire della trama.
Non che sia dannoso: la struttura narrativa tradizionale non rappresenta mai un fallimento, dal punto di vista produttivo e addirittura la sua superficialità in questo caso significa ‘fruibilità, e va valutata perciò in termini positivi.
Tuttavia, un target di spettatori profano del gaming – e che si approccia cinematograficamente – percepisce delle gravi mancanze. I personaggi sono appena abbozzati, senza storia né psicologia: sono, più che altro, character. Non si instaura mai una vera e propria relazione fra essi, che rimangono segregati nella propria inquadratura – o addirittura nella propria soggettiva, come succede negli sparatutto in prima persona – per tutta la durata del film. Uno dei tratti più interessanti del film è l’anello-confine di ferro, invalicabile per gli spettri e luogo sicuro per i protagonisti: ecco, un’altra chiusura, un altro box semantico – come una casa-base – il cui valore funzionale sorpassa ancora una volta quello narrativo. Qualche battuta stimola una riflessione «Credo in Dio, e questo è l’opposto di Dio», ma non trova spazio per essere approfondita, come la presumibile critica registica alla scienza della guerra in rapporto all’essere umano, nella sua irriducibile condizione vivente e mortale: ma anche questa, come le scene di combattimento, non riescono a trovare una propria autonomia, restando imprigionate nell’estetica funzionale.